Sepolti vivi di Antonietta Agostini + I primi capitoli del romanzo


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UN THRILLER MOZZAFIATO!


Un serial killer che va fermato.

Una corsa contro il tempo.  E una scia di vittime che somigliano a principesse addormentate nelle loro teche di cristallo con l'unica differenza che non ci saranno baci a svegliarle, se non quello gelido ed eterno della morte. 



Titolo: Sepolti vivi

Autore: Antonietta Agostini

Editore: Selp- Pubblishing
Pagine: 150
Prezzo: (E-book) 1,99 Euro 
(Cartaceo) 6,00 Euro

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Visita Pluckley insieme ad Adam Miller ➡ https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=1888230088117312&id=1731603187113337


IL LIBRO...




Pluckley, una cittadina del Kent, viene sconvolta dal ritrovamento di una donna sepolta in una teca di plexiglas nel bosco di Dering Woods. Le indagini vengono affidate alla squadra investigativa del detective Adam Miller trasferitosi da poco dal Michigan. La caccia al killer è aperta ma il gioco è più duro di quanto il detective Miller pensasse.
Se il suo lavoro mettesse a repentaglio la vita delle persone a cui vuole bene? Se il serial killer volesse distruggere la vita dell'uomo che gli dà la caccia?
Da predatore a preda in una corsa forsennata contro il tempo per salvare non solo delle vite ma anche le persone che più ama.

Un thriller pieno di suspense e una scia di vittime che somigliano a principesse addormentate nelle loro teche di cristallo con l'unica differenza che non ci saranno baci a svegliarle, se non quello gelido ed eterno della morte.

Sinossi a cura di Vanessa Vescera








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IL BOOKTRAILER...




LEGGI I PRIMI CAPITOLI GRATUITAMENTE!!!!




Quando Lauren Nelson si risvegliò dal torpore che l’aveva lasciata priva di sensi per più di un’ora, fece fatica a capire dove si trovasse. Cercò di riaprire gli occhi, ma intorno a lei vi era solo il buio più oscuro. Non ricordava nulla, sentiva solo la testa pesante e un dolore lancinante dietro alla nuca.
A stento riuscì ad allungare una mano per toccare la parte dolorante. Qualcosa di liquido e viscido le bagnò la punta delle dita.
Forse è sangue, pensò.
Chi mi ha colpita? Si domandò.
Dove sono? Continuò ad interrogarsi.
Cercò di ricordare cosa fosse accaduto prima di essere rinchiusa lì dentro. Ma aveva un vuoto temporale. Tentò di alzarsi, ma venne subito respinta indietro da qualcosa. Non poteva muoversi, perché era intrappolata dentro qualcosa, se ne rese subito conto, ma non riusciva a capire dentro cosa fosse stata rinchiusa. Ed era così, la donna giaceva all'interno di una teca trasparente, in una grande buca sotto terra, dove il chiarore della luna che filtrava dagli alberi sopra di lei le diede modo di riuscire a vedere un cielo stellato che sembrava distante anni luce. Si dimenò urlando, ma ogni sforzo era ormai inutile. Non poteva uscire da quella teca. Il panico si impossessò di lei. Le lacrime le rigarono il viso. Chi l'aveva messa lì dentro? Chi l'aveva colpita alla testa? Chi poteva essere così crudele da lasciarla morire in quel modo?
Provò a battere con i pugni contro la trasparenza che la divideva dalla sua salvezza, ma era tutto vano. Nessuno l’avrebbe tirata fuori da lì sotto.
Sentì il cuore battere così forte nel suo torace che ebbe quasi il timore che potesse schizzarle fuori dalla carne. Quello era l’unico rumore che le fece compagnia fino al suo ultimo respiro. La paura la paralizzò. Sperò con tutta se stessa che qualcuno la salvasse. Ma in cuor suo sapeva già che non sarebbe accaduto, perché lei non aveva nessuno, se non sua madre, ma cosa poteva fare per lei, era rinchiusa in una casa di cura, e la sua amica, il suo unico vero appiglio, ma era partita per lavoro. Nessuno l’avrebbe cercata. Nessuno l’amava a tal punto da rendersi conto che non sarebbe rincasata quella sera.
Stava morendo. Era la sua unica certezza. 



1.
Pluckley – Gran Bretagna
Una settimana dopo

Se c’è una cosa che detesto più di ogni altra cosa al mondo sono i traslochi. Ti porti dietro tanta di quella roba che non sai neanche da dove provenga, e più gli anni passano e più le cianfrusaglie aumentano. Mi sono trasferito qui nel Kent un mese fa, e smaltire gli scatoloni si sta rivelando un’impresa molto ardua.
Smisto con molta fretta delle scatole alla ricerca disperata dei miei fascicoli da sistemare nel mio nuovo ufficio. La casa che abbiamo acquistato mi permette di avere uno studio tutto mio da usare in caso debba lavorare a qualche caso anche da casa. Kim non era d'accordo con la mia scelta, lei avrebbe occupato questa stanza con un figlio, ma adesso egoisticamente parlando non mi sento pronto per essere un padre, anche se so che lei lo desidera da quando ci siamo sposati, ma a me non piace programmare la vita, preferisco che una cosa così importante venga da sé. Anche se non sono pronto non vuol dire che se un giorno Kim dovesse dirmi che aspetta un figlio io mi tiri indietro. No, questo no.
«Sai che prima o poi dovrai togliere di mezzo tutto questo caos, anche se rimandi da un mese non vuol dire che vivremo in mezzo agli scatoloni», squittisce Kim alle mie spalle.
«Lo so. Ma se avessimo catalogato tutti questi scatoloni con dei post-it a quest'ora saprei da dove cominciare», dico ammiccando.
«Senti che scusa banale stai usando per non sistemare le tue cose!» Dice in tono scherzoso e viene verso di me.
«Mia cara, si dà il caso che in questi scatoloni ci sia anche la tua roba...» mi avvicino alla scatola che stavo controllando e tiro fuori da essa la sua collezione di pietre luccicanti che ho sempre trovato molto strane, ma soprattutto, inutili.
«Allora, visto che tutte queste cose sono mie, posso gettare questa roba direttamente nel bidone della spazzatura?» Ridacchio e lei subito si agita cercando di togliermi la scatola da sotto mano.
«Adam Miller non ci pensi neanche o mi vedrò costretta a farla trasferire in una nazione ancora da scoprire per scappare dalla mia ira!»
«Signorinella, io le consiglio di non farmi arrabbiare…» le vado incontro con fare minaccioso.
Lei capisce le mie intenzioni e indietreggia. Io mi muovo ancora nella sua direzione e lei inizia a correre per scappare da me. La rincorro e le sue risate fragorose invadono subito la casa. Le sono quasi vicino e lei grida divertita. Poi si blocca e io le plano addosso, e cadiamo a terra ruzzolando divertiti.
Mi getta le braccia intorno al collo e mi bacia. Siamo sposati da pochi anni. Tre, per l'esattezza. Kim è una donna molto sobria, con dei sani principi morali. È proprio per questo suo modo di essere sempre altruista con tutti che me ne sono innamorato perdutamente, quando la vidi per la prima volta, sette anni fa.
Continuiamo a ridere così forte che ho quasi timore che la nostra vicina faccia irruzione in casa nostra per ucciderci una volta per tutte.
La nostra vecchia e cara vicina di casa, Margaret, passa le giornate nascosta dietro alla finestra della sua cucina per spiare ogni movimento dei nostri vicini, compresi i nostri, convinta che nessuno si accorga mai della sua invadenza, è la donna più strana che abbia mai incontrato. Ho discusso più con lei in un mese di pseudo conoscenza che con altre persone che conosco da decenni. Lei è una donna molto lamentosa e non fa altro che fare la ramanzina a tutto il vicinato, ma soprattutto a noi, che siamo la famiglia più chiassosa del quartiere. Ma io e Kim siamo così, non siamo fatti per il silenzio e le giornate monotone. Noi amiamo tenere la musica a tutto volume e facciamo spesso cene in giardino con Michael e sua moglie Beth. Lo so, è da un mese che prometto a Margaret che saremmo stati meno fastidiosi, ma è più forte di noi, la vita piatta non fa per noi.
Dei colpetti sulla porta-finestra prima leggeri poi più decisi ci fanno sobbalzare.  Alziamo entrambi gli occhi su di essa e per poco non ci prende un colpo. La signora Margaret se ne sta con la faccia appiccicata al vetro e i suoi occhi severi ci inceneriscono all'istante.
«Oh mio dio fa quasi paura», dice a denti stretti Kim per non far vedere all'anziana signora che dalla sua bocca sia uscito qualcosa.
Mi alzo di scatto e vado subito ad aprirle.
«Signora Margaret che meravigliosa sorpresa!» mento spudoratamente e lei mi guarda accigliata.
«Può avvisare il postino che io non sono la sua portinaia?» Dice tagliente porgendomi una sfilza di buste da lettera.
Porto una mano in alto e mi gratto la testa confuso. Non è la prima volta che Tom lascia a lei la mia posta, e non è la prima volta che lei se ne lamenta con me.
«Mi dispiace», mormoro appena, mentre Kim mi affianca.
«È un piacere vederla», le sorride mia moglie.
«Fate poco gli spiritosi, so benissimo che non mi sopportate, e sappiate che la cosa è reciproca. Siete arrivati da un mese e già vi sentite i padroni del quartiere... Questa è l'ultima volta che vi porto la vostra stupida corrispondenza. La prossima volta andrà a finire direttamente nella pattumiera», tuona tutto d’un fiato e se ne va senza neanche salutare, ondeggiando sul suo bastone d'appoggio. La vedo zoppicare, e per un istante provo pena per lei. Ma la signora alza un dito medio senza neanche voltarsi e tutto l'affetto provato nei suoi confronti svanisce come una nuvola di fumo.
Chiudo il battente e mia moglie scoppia a ridere di gusto.
«Prima o poi ci staccherà la testa e ci farà dei biscotti da offrire all’intero vicinato», ridacchia senza sosta.
Torno da lei e cerco la sua bocca morbida, vellutata. E la trovo subito. Le nostre labbra si staccano e io le sorrido ammaliato.
«Ci mettiamo a lavoro?» Le dico guardando gli scatoloni che non aspettano altro che noi, e poiché il mio turno inizia domani mattina, posso anche concedermi il lusso di togliermi di mezzo questi dannati scatoloni.
«Subito», dice divertita mettendosi sugli attenti.
La sculaccio divertito e lei si appresta ad andare verso gli scatoloni.
Dopo circa tre ore il grande ingresso è sgombro dai pacchi e ci gettiamo esausti sul divano. Kim si addormenta subito, mentre io penso alla cena e nel frattempo sfoglio un fascicolo del caso al quale dovrò lavorare da domani.
Quando Michael mi ha chiesto di prendere servizio da lui mi sono meravigliato della sua proposta. Io sono un tipo molto tranquillo e sempre fedele alle regole. Lui invece in tutti questi anni non ha fatto altro che mettersi nei guai per il suo carattere rivoluzionario e insubordinato. Michael era il migliore amico di mio padre, nonché suo collega. Hanno fatto coppia fissa per anni e quando mio padre è morto durante un conflitto a fuoco, lui era quasi impazzito. Io e Michael ci portiamo diversi anni di differenza, lui viaggia verso i sessanta e la pensione ormai è vicina, mentre io ho ancora molti anni di carriera davanti. Ho solo trentanove anni e ho ancora molta strada da fare.
Dopo aver cenato abbondantemente, finalmente mi metto a letto, ma senza riuscire a prendere sonno. Domani dovrò incontrare il procuratore per discutere sul caso Archer. Me lo porto dietro dal Michigan. Mi sta alle calcagna e non mi lascia andare. Archer. L'uomo che cerco da un anno. L'uomo che ha spezzato molte vite senza farsi mai prendere. Maledetto. Penso mentre mi rigiro nervosamente nel letto. Kim dorme tranquilla. E io vorrei fare lo stesso. Chiudo gli occhi e mi lascio sopraffare dal sonno, che questa volta non tarda ad arrivare.







È notte fonda quando il mio telefono prende a squillare ininterrottamente. Cerco a tastoni il Blackberry che è appoggiato accanto a una pila di libri lasciati in disordine sul comodino, e senza neanche guardare chi è, rispondo con la voce impastata dal sonno.
«Ehi, Miller...» la voce del mio partner Michael Lee mi fa rizzare subito in piedi. Siedo sul bordo del letto, e mi stropiccio gli occhi con una mano.
«Dimmi Lee», bisbiglio, per non svegliare mia moglie che dorme beatamente.
Mi allungo verso di lei per toglierle una ciocca di capelli ribelli che ricadono sul suo viso angelico. E resto a fissarla ammaliata. Poi mi ricordo della sua telefonata con Michael.
«Che succede?» chiedo, guardando l’orologio al polso. «Cristo santo Lee, sono le tre…» mi lamento.
«Non avrei chiamato a quest'ora se non fosse importante, Miller. Devi venire nel bosco», e non aggiunge altro.
A quanto so, nessuno va mai nella foresta di Dering Wood, da anni, e dopo tutte le cose che ho sentito sul suo conto, saperlo lì m'inquiete.
Allungo le gambe e cerco le pantofole che ho lasciato al lato del letto ieri sera. Il solo pensiero di doverle indossare mi fa innervosire, le odio, ma sono un regalo di Kim del natale scorso, e allora mi sento quasi obbligato a usarle. Ma questa notte no, non potrei tollerare di averle ai piedi. Le scalcio via e scendo a piedi nudi, rabbrividendo al contatto con il pavimento in marmo gelido.
«Allora, che succede?» chiedo alzandomi del tutto, di mala voglia.
«Abbiamo ricevuto una telefonata anonima in centrale. Una donna è stata trovata priva di vita a due metri sotto terra...» fa una pausa. «Oh Miller, quella donna giaceva morta in una teca di plexiglass...eh, santo cielo non puoi capire in che condizioni l'abbiamo trovata», dice infine con un tono di disgusto.
Prendo la tuta e la felpa che ho lasciato sulla poltrona e li indosso rapidamente.
«Arrivo subito», dico interrompendo la telefonata.
«Tesoro dove vai?» la voce di Kim mi fa sobbalzare. Mi volto e la guardo con ammirazione. È bellissima anche senza un filo di trucco e con il sonno stampato sul viso. Per me è bellissima sempre.
«Lavoro, amore. Torna a dormire», mi avvicino a lei e la bacio delicatamente sulla fronte.
Kim torna a dormire, e io scendo al piano di sotto. Prima di uscire, prendo le chiavi della mia vecchia Chervolet Trusks dell' 80, verde acido. Un regalo di mio padre che custodisco gelosamente. Attraverso il vialetto che conduce al garage, apro la saracinesca con uno scatto rumoroso, ignorando completamente l'orario.
Domani mattina la pagherò sicuramente cara se sveglio la signora Margaret. Penso.
Entro in macchina e parto a razzo, frecciando per le vie buie e silenziose.
Dopo circa dieci minuti, mi ritrovo ad attraversare il bosco, con una torcia elettrica, seguendo le indicazioni che Lee mi ha fornito.
Percorro una stradina sterrata, fiancheggiata da grossi pioppi imponenti che mi fanno sentire come una formica al loro cospetto. È buio pesto intorno a me, e anche con la torcia faccio fatica a camminare. Il terreno sotto ai miei piedi è instabile, il fango dovuto alla pioggia di questa notte, mi fa scivolare ad ogni passo, e più volte perdo l'equilibrio affondando i piedi nel terriccio inzuppato.
Arrivo davanti a una casa sperduta nel nulla, abitata da un certo Caleb, un giovane ragazzo che ha perso tutto nel giro di poco tempo. La famiglia. La moglie. La dignità. Per allontanarsi dalla città invadente che lo faceva sentire un pesce fuor d’acqua si è costruito da solo la casa che ormai lo ospita da anni. Tutti lo chiamano il ‘pazzo’.Non ho mai creduto alle chiacchiere della gente, ma a volte penso che per vivere in un posto del genere devi essere davvero un folle. Forse è davvero così, forse perdere tutto l’ha reso instabile mentalmente come tutti asseriscono. Da quando sono arrivato in questa città mi sono imbattuto in lui solo una volta quando è venuto in città per fare rifornimento di provviste, e aveva un’aria tutta trasandata, e lo sguardo perso nel vuoto.
 Cammino a passo svelto, e scorgo in lontananza le luci abbaglianti delle macchine della polizia della contea. La sezione omicidi è già al lavoro. Luci e grida tutt’intorno al luogo dove è stato rinvenuto il cadavere. Quando ero giovane e avevo appena iniziato la mia carriera da poliziotto, sognavo di stare nella omicidi perché quando ero di pattuglia non potevo seguire le indagini insieme a chi arrivava sul posto. Dopo anni di gavetta ci sono riuscito e ora avanzo verso i miei colleghi sperando ancora di non inciampare e rompermi l’osso del collo.
«Miller», grida Lee venendomi incontro. In mano tiene un taccuino e una biro.
Quando arrivo vicino a lui, mi guardo intorno. Lo sceriffo della contea, Tyler Clark, un uomo di mezza età panciuto e sempre molto attento, sta parlando con due agenti. Mentre altri dei nostri cercano di allontanare i media che sono già sul posto. E la cosa non mi stupisce affatto. Ogni volta che succede qualcosa, loro sono sempre i primi ad arrivare.
«Maledetti bastardi. Quello che ci ha fatto la chiamata deve aver informato anche la stampa», ringhia Lee, affiancandosi a me, mentre guarda con disgusto il gruppetto di giornalisti poco distanti da noi che si accalcano per cercare di fare lo scatto migliore o per riuscire a estorcere informazioni a qualcuno di noi.
Non rispondo alle sue parole, con la stampa non c’è da stupirsi, sanno le cose prima di noi. Hanno un dono fastidioso, quello di avere la notizia sempre a portata di mano pronta per andare in stampa.
Mi avvicino allo sceriffo e quando Tyler mi vede, mi fa cenno di raggiungerlo subito. Così affretto il passo e vado da luiSe ne sta con le mani intorno alla vita, a fissare qualcosa per terra, ma dalla distanza in cui mi trovo non riesco a vedere cosa stia guardando.
«La donna è ancora lì sotto», mi informa indicando una fossa poco distante dai suoi piedi. Fisso prima lui e poi abbasso gli occhi verso una buca enorme, nella quale c’è una teca trasparente con del terriccio sopra. Ma quello che vi è al suo interno mi fa accapponare la pelle.
La donna giace rannicchiata su un fianco. Ha gli occhi sbarrati, la lingua di fuori, e le mani rimaste tese verso l’alto. Cerco di illuminare la teca, e tutto il suo perimetro. Su un lato la terra è schiacciata, come se ci fosse stata appoggiata una tavola di legno, forse usata per facilitare lo scorrimento della teca fino in basso. Traggo le mie conclusioni, mentre tiro fuori dal giubbotto il mio taccuino e prendo appunti.
Poi perlustro la zona in cerca di qualcosa di utile. E ascolto svogliatamente i discorsi dei giornalisti che mi guardano incuriositi.
«Che rottura di palle», borbotto riferendomi a loro.
Continuo a perlustrare tutto, restando lontano da quei ficcanaso. Devo raccogliere le idee, e posso farlo solo stando in disparte. Come sempre.
«È stato lui», grida un gruppetto alle mie spalle, ma non gli presto attenzione.
Poi noto un’ombra dietro di me, e mi volto di scatto.  Vedo Caleb Milson avanzare verso la striscia gialla che delinea il luogo del delitto e cammina sembrando uno zombie. Guarda a terra. Fisso, con gli occhi stralunati.
«Dovete arrestarlo», gridano in coro.
Mi volto verso di loro e mi rendo conto che alcune persone si sono fatte coraggio e sono venute a curiosare.
«Cosa ti ha fatto…» bisbiglia in un modo quasi incomprensibile.
«Non puoi stare qui…» asserisco allontanandolo.
«Lei è morta», farfuglia in trance.
Come fa a sapere che c’è una donna lì sotto? Corrugo la fronte, cerco di allontanarlo e Lee mi viene in soccorso.
«L’hanno uccisa. Io l’ho visto», evita la mia presa e si avvicina alla teca oltrepassando la linea gialla.
«Non puoi stare qui. Vattene», urla Lee.
«Aspetta. Ha detto che l’ha visto. Forse sa qualcosa», lo blocco.
«Quello è un pazzo, cosa vuoi che abbia visto davvero? Magari se l’è anche immaginato», Michael scuote il capo contrariato. Non mi importa che sia pazzo o no, mi importa solo di sapere cosa ha visto. Ho intenzione di portarlo in centrale per interrogarlo. Con o senza il consenso di Lee.

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